Introduzione
Che posizione prendiamo sulla disuguaglianza? Le analisi statistiche possono aiutarci a misurarla, a calcolarne gli effetti. Ma sono le nostre riflessioni etiche a suggerirci il grado di disuguaglianza che possiamo accettare nelle nostre società. E a reagire di fronte alle minacce che le disuguaglianze oggi ci pongono: snaturano le nostre democrazie e pregiudicano la crescita economica. La globalizzazione mina il principio di sovranità dello Stato nazionale e l’efficacia dei meccanismi di rappresentanza politica. Nello stesso tempo, ad esempio in Europa, la rappresentatività politica persa a livello nazionale non si è trasferita a livello europeo dove il potere legislativo subisce lo strapotere dell’esecutivo. Il modo in cui reagiamo alla disuguaglianza definisce anche la possibilità di dare un volto più umano alla globalizzazione e restituire credibilità alle nostre democrazie.
1 Perché discutere di disuguaglianza?
La società dei cacciatori-raccoglitori erano molto più egualitarie delle nostre. Fu con l’invenzione dell’agricoltura, gli insediamenti in comunità stanziali, la diversificazione del lavoro e la complessificazione delle società che ebbero inizio le disuguaglianze. Alcuni sostengono che il problema non sia dato dalla disuguaglianza, ma dalla povertà. Le disuguaglianze non sarebbero che il riflesso della variabilità individuale, del maggiore o minore impegno e della propensione al risparmio. Come tali, quindi, favorirebbero lo sviluppo economico complessivo. La loro natura sarebbe transitoria, come indica la curva di Kuznets ad U rovesciata, relativa all’andamento delle disuguaglianze, in relazione allo stadio dello sviluppo economico. La disuguaglianza rappresenterebbe una fase di passaggio che prelude a più alti livelli di sviluppo. E questi traguardi della crescita sarebbero importanti perché all’alzarsi della marea si sollevano tutte le barche, anche quelle che prima erano impantanate nel fango. Ma tutte queste disquisizioni teoriche non resistono di fronte all’evidenza empirica. Ad esempio, i 30 anni di crescita economica successivi alla seconda guerra mondiale sono stati anni di limitata disuguaglianza. Viceversa, gli ultimi decenni di crescita asfittica hanno registrato un drammatico aumento delle disuguaglianze. E tutto questo è avvenuto smentendo le previsioni teoriche costruire sulla base della curva di Kuznets: le disuguaglianze non hanno rappresentato un momento di passaggio verso più alti livelli di crescita. Occuparsi di disuguaglianze suscita una certa ostilità ad opera dei partiti conservatori perché mette a rischio l’equilibrio di potere esistente. Tra i vari pensatori che hanno riflettuto su questo problema, A. Sen e M. Nussbaum hanno lavorato su una nuova teoria della giustizia, basata sui concetti di capacità (sono le potenzialità che le persone possono esprimere in date condizioni) e funzionamenti (i modi concreti di essere e agire). Nella loro teoria viene sottolineata, oltre l’importanza del reddito, quella dell’educazione ricevuta e della cultura in cui si è immersi. La disuguaglianza ha impatti negativi anche sulla stabilità economico finanziaria. La crisi del 29, come quella del 2008, è stata preceduta da un forte aumento delle disparità di reddito e ricchezza. Le scelte politiche hanno determinato in gran parte l’aumento delle disuguaglianze indebolendo le forze sindacali, abbassando le aliquote fiscali per i redditi più alti e per le tasse di successione. Per quanto riguarda le disuguaglianze globali, oggi l’80% è spiegato dalle differenze tra Paesi. All’inizio dell’800, invece, le differenze tra Paesi spiegavano soltanto il 30% della disuguaglianza globale. Il resto era dovuto al divario tra le diverse classi sociali. La disuguaglianza rappresenta una minaccia per la democrazia che può degenerare in plutocrazia e, persino, in cleptocrazia.
2 Il lungo disinteresse dell’economia per la disuguaglianza
Voltaire sosteneva che non fosse la disuguaglianza la vera sciagura, ma la sottomissione. Ndr si potrebbe anche dire che l’essere oppressi dai bisogni ci rende dipendenti in tanti modi e, quindi, sottomessi. Alla fine del 700 Condorcet e Thomas Paine affermavano che la povertà non è un dato di natura, lo specchio della variabilità biologica individuale, ma il risultato evitabile di politiche economiche e sociali sbagliate. E’ il frutto di errori di pianificazione. Gli economisti classici (come A. Smith, Thomas Malthus, David Riccardo, James e il figlio J. Stuart Mill) e gli economisti neo-classici che subentrarono verso fine 800 non si interessarono al problema della distribuzione individuale dei redditi. Il problema centrale era allora quello della distribuzione funzionale dei redditi, ossia quanto va a capitale, lavoro e terra (i fattori di produzione) e, quindi, al profitto, ai salari e alle rendite. Per l’economia classica la disciplina di studio era, in realtà, l’economia politica perché si interessavano della interazioni tra l’economia e la politica. La definizione delle leggi che regolano questa distribuzione è il problema fondamentale dell’economia politica. A. Smith ricercava le basi morali di una società buona combinando la filosofia morale con l’analisi del funzionamento dell’economia e delle sue istituzioni. Non va dimenticato che circa 20 anni prima della Ricchezza delle nazioni aveva scritto La teoria dei sentimenti morali. Ad eccezione di Marx, a metà 800, nessun economista si era mai chiesto perché qualcuno fosse povero e qualcun altro ricco. La disuguaglianza non rientrava negli interessi concettuali degli economisti. A partire dal 1870 la teoria economica subisce una profonda trasformazione: la rivoluzione marginalista, basata sull’utilità marginale e sul principio di massimizzazione. I protagonisti di questa trasformazione sono definiti economisti neoclassici che sono ancor oggi rappresentati nella economia moderna. L’economia si era distaccata dalla filosofia morale già ai tempi degli economisti classici. Si distaccò anche dalla politica e si avvicinò alla matematica, diventando una disciplina scientifica a se stante. Fu Alfred Marshall, coi suoi “principi di economia” l’autore di questa svolta (1890). La teoria della produzione neo-classica considera il mercato come lo strumento ottimala di allocazione delle risorse, in base alle condizioni di scambio. Il benessere sociale viene misurato con la somma delle utilità individuali. La funzione di utilità che analizza l’utilità in funzione dei beni consumati resta il pilastro della teorizzazione neo-classica. Disuguaglianza e povertà sono accettate dagli economisti classici come dati di fatto naturali perché rispecchiano la variabilità degli individui che sono, tra l’altro, artefici del loro destino. La distribuzione di frequenza dei redditi personali è asimmetrica positiva. Ciò significa che la maggior parte delle persone ha un reddito inferiore alla media. L’attenzione degli economisti è concentrata su come allargare le dimensioni della torta, non sulla dimensione delle singole fette.
3 La deriva statistica degli studi sulla disuguaglianza
Fino a una certa epoca storica (tutto l’800), gli economisti non si interessarono alla dimensione delle varie fette di torta, ma solo alla sua dimensione complessiva. Un primo passo successivo fu quello di analizzare, con l’aiuto della statistica, la distribuzione di frequenza dei redditi. L’ultra-liberale Pareto (1848-1923) italo-francese, concluse che la distribuzione dela ricchezza non era determinata dalla struttura economica della società e delle istituzioni, ma dalla distribuzione di certe qualità naturali tra gli individui. Ndr oggi le sue conclusioni sono considerate sbagliate. Altri sottolinearono che la disuguaglianza è una combinazione di dispersione (attorno alla media) e di asimmetria (che ci svela quanto è diversa la forma della distribuzione sui 2 lati rispetto alla moda). Alcuni lavorarono sulla coda destra della distribuzione per formulare una legge di potenza capace di stimare i valori veri dei redditi degli individui molto ricchi. E’ all’economista Lorenz che si deve lo studio della curva omonima ai primi del 900 (vedi pag. 46). Man mano ci si allontana dalla diagonale del quadrato e tanto più l’arco si incurva, tanto più aumenta la disuguaglianza. Gini più tardi (1914) sostenne che la curva di Lorenz era la rappresentazione geometrica del suo coefficiente. Il coefficiente di Gini è indipendente dalla media, ma coefficienti uguali possono coesistere con distribuzioni anche molto diverse. Poi nacquero misure di dispersione come varianza, deviazione standard, varianza tra e varianza entro… Empiricamente una larga maggioranza della popolazione ha un reddito inferiore alla media, pochi hanno un reddito più alto. Perché succede? Esistono delle leggi di potenza. Le politiche, poi, ad esempio quelle fiscali, hanno la loro influenza. La distribuzione log.normale è la migliore candidata a rappresentare graficamente la distribuzione dei redditi. Kuznets, in un articolo in cui sottolineava la natura congetturale delle sue supposizioni, ipotizzava una relazione ad U rovesciata tra crescita economica e disuguaglianza. La relazione poteva sembrare plausibile fino a certi livelli di crescita, ma non per economie avanzate. Sia Pareto che Kuznets distolsero lo sguardo dall’impatto della politica sulle disuguaglianze. La teoria neo-classica della distribuzione, secondo cui il mercato è il miglior strumento per ottenere un’allocazione ottimale delle risorse, ha allontanato la riflessione sulle implicazioni della disuguaglianza, sui principi e i valori cui riferirsi per giudicarla. A. Atkinson nel 1970 ha studiato le implicazioni in termini di benessere delle diverse curve di Lorenz elaborando un “indice normativo” omonimo. Ad esempio, un valore di 0,3 indica che se il reddito fosse equamente distribuito sarebbe sufficiente soltanto il 70% del pil per assicurare lo stesso livello di benessere sociale. L’indice varia secondo un parametro epsilon che tiene conto dell’avversione della società verso la disuguaglianza. Dalla seconda metà del secolo XX’ A. sen sostiene l’importanza della qualità della vita al di là dell’utilità e del reddito. A questo proposito invita a considerare ciò che le persone sono e ciò che fanno (i funzionamenti) e le capacità (le opportunità di acquisire quei funzionamenti potenziali tipo buona nutrizione, salute, istruzione, vita affettiva appagante…). Ha elaborato un indice di sviluppo umano, una valutazione multidimensionale del benessere che tiene conto del reddito, della salute e dell’istruzione e anche del grado di disuguaglianza nella distribuzione di questi beni.
4 Disuguaglianza e globalizzazione
La disuguaglianza socio-economica è alla base di una buona parte dei fenomeni migratori. La globalizzazione è correlata in modo diverso con le disuguaglianze nelle diverse aree geografiche del mondo. La disuguaglianza crescente tra Paesi e quella interna non possono essere attribuite alla globalizzazione. Con l’avvento della rivoluzione industriale in questi ultimi 2 secoli la disuguaglianza tra le nazioni è aumentata fortemente. Teoricamente gli economisti si aspettavano una progressiva convergenza. Invece assistiamo a una divergenza nei redditi medi pro-capite tra nazioni. La disuguaglianza all’interno dei Paesi industrializzati, invece, dopo aver raggiunto un apice all’inizio del 900, è scesa fin verso la fine degli anni 70. Hanno avuto un ruolo anche la guerra fredda e le conseguenti politiche di welfare adottate nell’occidente. Sembrava che l’andamento seguisse la curva a U rovesciato di Kuznets, ma in seguito ha ripreso a salire contraddicendo le previsioni teoriche. Oggi si parla di una s reclinata che mima l’andamento reale della relazione. In alternativa si parla anche di onde di Kuznets. Per quanto riguarda i confronti tra nazioni, tra il 1950 e il 1970 l’Italia ha rappresentato un caso di grande successo nella crescita economica. La crescita è continuata, anche se più lentamente, fino all’inizio degli anni 90. Da allora, però, l’Italia non si è più ripresa. Dopo il 1980, invece, Cina e India (con ritardo di circa 20 anni), con le cosiddette tigri asiatiche, sono cominciate a crescere a ritmi sostenuti. E’ grazie a questi sviluppi che la disuguaglianza globale tra cittadini del mondo è diminuita. E’ difficile stabilire che cosa influenza la crescita. Certamente contribuisce l’apertura economica, ma anche le condizioni geografiche, la validità delle istituzioni, la pace. La stagnazione economica e l’impoverimento del sud del mondo sono correlati allo sfruttamento, allo schiavismo e al colonialismo. Fino all’avvento della rivoluzione industriale, il reddito medio della gran massa della popolazione si avvicinava al doppio del reddito di sussistenza. Più alto è il reddito medio rispetto al reddito di sussistenza, maggiore è il livello di disuguaglianza possibile. La transizione dall’agricoltura all’industria ha dato inizio all’andamento ascendente della curva di Kuznets, fino a quando ha raggiunto il suoi apice nel primo decennio del 900. Oggi la disuguaglianza globale è spiegata per l’80% dalla disuguaglianza tra le nazioni. Il luogo di nascita è diventato il fattore principale nel determinare la posizione occupata da un individuo nella distribuzione globale del reddito. Ndr da questa affermazione discendono 2 considerazioni: 1 viene legittimato un reddito di base universale; 2 le migrazioni sono un fenomeno strutturale della nostra era. Un eccesso di deterrenti porta solo a un maggior numero di vittime. Ma da chi emigra e anche dalla politica non è ben compreso il fenomeno sociale della povertà relativa, ossia ciò che significa, da un punto di vista esistenziale e delle relazioni sociali, la povertà relativa per chi la vive.
5 Disuguaglianza e democrazia
Per tanto tempo la disuguaglianza non è stata al centro delle preoccupazioni degli economisti. Anzi, si consideravano i suoi effetti favorevoli sul risparmio, gli investimenti, la produzione e la crescita del Pil. L’attenzione si concentrava sulle dimensioni assolute della torta. Più grande era, maggiore diventava la dimensione delle singole fette. Non contava la dimensione relativa delle singole fette. Il problema non era la disuguaglianza, ma la povertà, cui si poteva, eventualmente, prestare soccorso. Oggi è cambiato. La concentrazione di reddito e ricchezza nelle mani di pochi infragilisce la democrazia. Rischia di trasformarla in oligarchia. Elezioni regolari e principio di maggioranza non bastano più a definirla. Come si può garantire una chiara comprensione dei problemi di interesse generale, una partecipazione e inclusione di tutti gli individui adulti, un controllo sull’agenda politica affinché vengano affrontate con la dovuta serietà i problemi prioritari? Come contenere gli impatti deleteri delle attività lobbistiche e la corruzione? Se ci fosse un’equa rappresentanza dei cittadini nell’ambito delle istituzioni democratiche e fosse contenuta la piaga della corruzione, il reddito medio si avvicinerebbe sempre più al reddito mediano e le disuguaglianze diminuirebbero. Si verificherebbe una progressiva convergenza dei redditi. La curva della loro distribuzione diventerebbe meno asimmetrica. Se ciò non accade è perché le democrazie sono degenerate in oligarchie o plutocrazie. Il potere economico e sociale si converte in potere politico. Le politiche delle nazioni più disuguali, come affermano Wilkinson e Pickett, peggiorano la qualità della vita dei loro cittadini. Finiscono per peggiorare la loro istruzione e salute. E si sa che il capitale umano, è importante perlomeno quanto il capitale materiale. Secondo Stiglitz (che riprende dei concetti di A. Smith), poi, gli investimenti in fiducia sono importanti quanto quelli in capitale umano o in tecnologie. Certi livelli esistenti di disuguaglianza sono intollerabili, ma un certo grado di disuguaglianza è inevitabile. E’ una questione di misura. La disuguaglianza intollerabile è associata a una nuova forma di capitalismo deregolamentato in cui sono i mercati a determinare l’agenda politica e i vincoli fiscali per le politiche pubbliche. E tutto questo si risolve in un aumento della disuguaglianze e nell’indebolimento della democrazia. NDR esistono principi e diritti universali, frutto del più alto consenso raggiunto nelle assemblee degli esseri umani. Sono questi valori e questi principi che devono orientare le scelte anche in ambito di politica economica.
6 Il futuro della disuguaglianza
Le disuguaglianze non sono tutte inevitabili. Bisogna cercare di eliminare quelle che originano dalla organizzazione sociale. Sono necessarie politiche in grado di frenarle. Molti non si interessano del problema delle disuguaglianze, ma del problema della povertà. Tuttavia, da un punto di vista politico, un elevato grado di disuguaglianza va di pari passo con forme estreme di povertà. Ma un conto è soccorrere i poveri, un conto diverso è affrontare seriamente il problema delle disuguaglianze. Per Picketty la loro origine deriva dal fatto che il tasso di rendimento del capitale è superiore al tasso di crescita dell’economia. Per questo i capitalisti si arricchiscono sempre di più rispetto al resto della popolazione. Occorre anche puntare sulla progressività del sistema fiscale. Ai tempi di Kennedy l’aliquota massima era a uno sbalorditivo 91%. Ma influiscono anche i tempi e i diversi contesti storici. Sotto Reagan, ad esempio, il sistema fiscale era molto più progressivo che sotto Obama (con Reagan l’aliquota massima era al 50% per scaglioni di reddito fluttuanti tra 250.000 e 150.000 dollari annui). Obama fu accusato di essere un socialista perché aveva innalzato l’aliquota massima delle imposte federali dal 15%, ereditata da George Bush, al 39,6% in occasione del suo secondo mandato. Esistono, comunque, altri modi per ridurre le disuguaglianze. A. Atkinson ci parla di una cassetta degli attrezzi ben fornita…La crescita, di per sé, non è sufficiente per risolvere il problema delle disuguaglianze. Bisogna capire come si distribuiscono redditi e ricchezze aggiuntive. La principale causa delle migrazioni internazionali a lungo termine risiede nella povertà e indigenza dei Paesi di origine. Le migrazioni sono drammatiche sia perché causano un ulteriore impoverimento nei Paesi di origine, sia perché possono generare fenomeni esplosivi nei Paesi di destinazione. Si tratta di uno dei poche fenomeni globali che non sono stati messi al centro di una specifica azione politica multilaterale. E questa è una grave mancanza.