M. Sandel. La Tirannia Del Merito. Ed. Feltrinelli, Milano, 2021

Riassunto

Prologo

 La pandemia ci ha ricordato la nostra comune vulnerabilità e interdipendenza. Questo richiederebbe una maggiore coesione. Oggi, dicono i leader politici, la divisione non è più tra destra e sinistra, ma tra apertura e chiusura. In un mondo aperto il successo dipende dall’istruzione e dal duro lavoro per vincere in un mercato globale. Quindi l’istruzione deve essere garantita a tutti. Tutti devono avere uguali opportunità per competere ad armi pari. In conseguenza di questo, però, a scapito della coesione, chi arriva in cima è portato a credere di meritarsi il proprio successo. E crede anche che chi resta indietro merita, a sua volta, il proprio destino. Per questo montano rabbia e risentimento da parte dei perdenti. Sale anche la capacità attrattiva di leader autoritari che si scagliano contro le élite e proclamano di difendere i confini e la sovranità nazionale. La rete delle relazioni sociali si è, così, ristretta e sfilacciata.

 Introduzione 

Sarebbe il caso di chiedersi a chi va attribuito il merito. Le persone che vincono nella competizione per l’esistenza hanno fatto tutto da sole? Che cosa si deve dire dei loro genitori e insegnanti? E da dove provengono doti e talenti? E cosa dire della società che premia abbondantemente certi talenti che qualcuno ha la fortunata coincidenza di possedere? Queste sono domande che dobbiamo farci, anche nel caso, tutt’altro che scontato, di una meritocrazia equa, priva di imbrogli, favoritismi e privilegi. Dobbiamo farci queste domande perché se pensiamo di esserci fatti da soli diventa difficile esercitare la gratitudine e l’umiltà. E, in assenza di gratitudine e umiltà, diventa difficile interessarsi di bene comune. Si resta come chiusi nella propria bolla di tracotanza meritocratica. Col rischio di mirare a premi sempre più alti e a penalizzazioni sempre più umilianti che feriscono la dignità delle persone meno fortunate e del loro lavoro. E così si finisce per svilire il bene comune. 


1 Vincitori e perdenti 

Il populismo nazionalista non affonda tanto le sue radici in una reazione xenofoba nei confronti dell’immigrazione e nemmeno nella paura di perdere il lavoro legata al commercio globale e alle tecnologie. Sono le crescenti disuguaglianze connesse con la globalizzazione dei mercati a generare la rabbia e la frustrazione dei cittadini che esprimono così la loro protesta populista. Siamo arrivati a questo punto perché i partiti tradizionalmente progressisti, irretiti dalle ondate neo-liberistiche della Tatcher e di Reagan, hanno sviluppato una concezione tecnocratica del bene pubblico. In base a questa concezione i meccanismi di mercato sono diventati i principali strumenti per realizzare il bene pubblico. Il dibattito pubblico si è così impoverito di argomentazioni morali sostanziali, come se questioni controverse da un punto di vista ideologico potessero essere risolte sulla base dell’efficienza economica. Ha poi concorso a fomentare la protesta populista anche l’atteggiamento che si suole manifestare nei confronti dei vincitori e dei perdenti della globalizzazione: ammirazione, da una parte, e biasimo, dall’altra. Le disuguaglianza sono cresciute, il potere di acquisto dei salari è calato in confronto a quaranta anni fa, la retorica dell’ascesa suona sempre più falsa. La mobilità sociale non può più fare da contrappeso alla disuguaglianza. In questo contesto così difficile le nostre società elargiscono premi spropositati alle persone con maggiore talento. Eppure dovrebbe essere un caposaldo centrale nell’etica meritocratica l’idea che non meritiamo di essere ricompensati o di essere penalizzati sulla base di fattori che fuoriescono dal nostro controllo. I talenti e l’impegno sono appunto fuori dal nostro controllo. Nonostante ciò, la meritocrazia produce tracotanza tra i vincitori e risentimento e umiliazione nei perdenti: un dubbio assillante nei confronti delle proprie capacità. 

Il merito, di per sé, è sempre stato apprezzato, anche se in modi diversi. Nell’antico Oriente Confucio considerava meritevole chi eccelleva per virtù e capacità. Nella Grecia di Aristotele il merito non era identificato con la ricchezza o le nobili origini, ma con la virtù civica e la phronesis: la saggezza pratica di chi sa riconoscere le circostanze specifiche che rendono appropriata una cosa piuttosto che l’altra e ci rende possibile ragionare sul bene comune. Il bene comune viene così, almeno in parte, a coincidere con l’educazione morale dei cittadini. La nostra versione tecnocratica della meritocrazia, invece, allontana il merito dalla phronesis e dalla morale. Il bene comune viene inteso principalmente in termini economici. Non ha a che fare con la costruzione di legami sociali e con la solidarietà. Comporta, invece, la soddisfazione delle preferenze dei consumatori conteggiate nel Pil. Il discorso pubblico si impoverisce. Cosa fare di fronte alle disuguaglianze, ai lavori poco dignitosi, qual è il significato morale dei confini nazionali? I dibattiti pubblici si sono trasformati, al meglio, in discorsi riduttivi, manageriali, tecnici, che non ispirano più nessuno. In conclusione, la globalizzazione guidata dal mercato non ha generato solo problemi di giustizia distributiva, per cui chi vince dovrebbe, in parte, risarcire chi perde. La lotta meritocratica ha eroso i legami sociali che tengono insieme la comunità. 


Cap 2 Una breve storia morale sul merito 

Selezionare le persone in base al merito ha una duplice motivazione: 1 di efficienza ed efficacia 2 di equità. E’ certo che sia ragionevole farlo.  Ma quanto è meritevole delle proprie doti naturali e del proprio impegno a coltivarle colui che le possiede? Per i protestanti, queste doti, che sono poi legate a prosperità e salute, sono un segno della grazia divina. E quindi non rientrano nella sfera di controllo degli esseri umani. Una spiegazione esente dai dogmi di fede potrebbe sostituire alla grazia divina la fortuna. E questo potrebbe essere più in linea con la storia di Giobbe che rivela come le vie del Signore siano infinite e misteriose, per cui fortuna e disgrazie restano imperscrutabili dalla mente umana. 

La dottrina della grazia di Lutero è decisamente anti-meritocratica perché il postulato centrale della meritocrazia è che non possiamo essere compensati o deprivati per fattori che fuoriescono dal nostro controllo. Eppure la dottrina protestante condusse a un’etica del lavoro fortemente meritocratica. Si può spiegare col fatto che il lavoro disciplinato e la sobrietà di un consumo contenuto sono ammirevoli non solo per se stessi, in quanto segno della grazia divina, ma anche perché favoriscono l’accumulo di ricchezze che alimenta il capitale. Questa era, almeno, l'opinione di Max Weber. Al di là delle dispute teologiche, alla fine il merito ebbe il sopravvento sulla grazia e fu riconosciuto che si era fondamentalmente artefici del proprio destino così nella buona che nella cattiva sorte. Per i più fortunati questo significava essere legittimati a passare dalla riconoscenza e umiltà alla tracotanza, al trionfalismo e a una certa dose di ansia, per il timore di perdere ciò che si è conquistato. Dalla parte dei perdenti, invece, questo generava umiliazione e risentimento. L’idea della libera scelta e della responsabilità individuale dilagò anche in ambito di salute. Ecco perché, nell’area della prevenzione, ad esempio, prevale l’approccio “stili di vita”. L’approccio educativo “stili di vita” dovrebbe essere, invece, complementare a quello più promettente di carattere socio-strutturale, in cui acquistano importanza le condizioni socio-economiche e culturali dei contesti in cui viviamo. Questo atteggiamento tracotante, legato alla meritocrazia, è diventato anche un aspetto evidente della politica progressista dagli anni 80 in poi. Si affermò il ruolo della responsabilità individuale per cui i perdenti non meritavano più la giusta dose di empatia. E questo nonostante J. Rawls nella sia Teoria della giustizia del 1971 avesse messo in luce la necessità di rimediare agli esiti sfortunati della roulette biologica e sociale cui sono sottoposte le nostre vite. 


Cap 3 La retorica dell’ascesa 

Utilità e libertà sono le argomentazioni più comuni riferite ai vantaggi dei mercati. Utilità perché i mercati creano incentivi per far crescere il Pil e, in una certa misura, il benessere generale. Libertà perché i mercati lasciano le persone libere di scegliere quale valore assegnare ai beni che scambiano (ndr ma questo non vale per i beni di prima necessità). Insistere, però, troppo sulla responsabilità individuale e sulla libera scelta ci rende difficile metterci nei panni degli altri e nutrire sentimenti di solidarietà. Tuttavia, negli ultimi 40 anni gli ideali meritocratici si sono radicati nella vita pubblica delle società democratiche. La discussione politica tra i partiti di centrodestra e centrosinistra si è incentrata, soprattutto, sui criteri che definiscono l’uguaglianza di opportunità. Per i progressisti richiede non solo l’assenza di discriminazioni, ma anche l’accesso all’istruzione, all’assistenza sanitaria e ai servizi per l’infanzia. Si possono realizzare gli ideali dell’equità e della produttività perché non spreca nessun contributo. In una società in cui le opportunità fossero davvero uguali, i mercati darebbero alle persone ciò che si meritano. Viene, così, sposata la retorica della responsabilità individuale (che tende a impoverire lo stato sociale) e quella dell’ascesa (che colpevolizza i perdenti). A partire dagli anni 80 i dibattiti sul welfare hanno riguardato più il ruolo della responsabilità individuale che quello della solidarietà. Si poteva diventare autosufficienti e autorealizzarsi. Si dovevano, però, limitare i benefici del welfare a chi fosse bisognoso non per colpa sua. Ma così si finiva per biasimare e penalizzare le vittime. E non ci si accorse che, per coloro che erano bloccati in basso o stavano sforzandosi di restare semplicemente a galla, la retorica dell’ascesa rappresentava un’offesa più che un a promessa. Anche perché, nel frattempo, le disuguaglianze crescevano, e le credenziali di un’istruzione universitaria creavano un pregiudizio sulla dignità dei lavori meno qualificati. Il malcontento era motivato da frustrazioni e da un senso di esclusione. 

La destra populista, invece, si mostrava più interessata all’affermazione della identità, della sovranità e dell’orgoglio nazionalista. Si trattava di obbiettivi ideali che riscuotevano un fascino ben maggiore rispetto alla retorica della responsabilità e dell’ascesa.


 Cap 4  Il credenzialismo

 Il credenzialismo è un pregiudizio insidioso a favore delle persone ben istruite. La storia dimostra, infatti, una scarsa correlazione tra credenziali accademiche prestigiose e la saggezza pratica o le virtù civiche, una sorta di propensione al bene comune. E’ perciò eccessiva l’enfasi sull’istruzione, vista come unico antidoto alla disuguaglianza, proposta sulla base del fatto che il guadagno dipende da ciò che si impara. In realtà l’istruzione finisce per perpetuare le disuguaglianze esistenti, più che attenuarle. Se l’istruzione è il rimedio alla disuguaglianza di cui sei vittima, la disuguaglianza non sancisce il fallimento del sistema, ma il tuo fallimento personale. Si trascura il problema vero che consiste nella scarsità del potere del lavoratore, non nella scarsità della sua intelligenza. Eppure, in un’era meritocratica, essere intelligenti e istruiti è apprezzato di più che essere dalla parte giusta. Nel congresso degli Stati Uniti il 95% dei deputati e il 100% dei senatori è laureato. C’è una sovra-rappresentazione dei laureati dato che nella popolazione sono solo 1/3. Si è ritornati alla situazione che vigeva nel 19’ secolo, prima del suffragio universale. C’è da chiedersi perché i partiti di centro-sinistra che per quasi tutto il XX’ secolo hanno attirato gli elettori con minore istruzione, oggi richiamano, invece, più gli elettori con istruzione superiore? Anche perché non hanno saputo rispondere al problema della crescente disuguaglianza degli ultimi decenni. Sono diventati dei tecnocrati e non affrontano le questioni che riguardano la giustizia e il bene comune. Secondo loro, il disaccordo esistente dipende dalla mancanza di informazioni sulla realtà dei fatti. Ma questa è una concezione tecnocratica della politica per cui la sfida non risiede nella concentrazione del potere o nell’offuscamento del bene comune, ma nel fornire informazioni migliori. La politica tecnocratica dei progressisti non si discosta molto dal neoliberismo. Per Obama la riforma sanitaria, ad esempio, si imponeva più per contenere l’aumento dei costi che per l’argomentazione morale della copertura universale, il diritto alla salute o l’equità sociale o la solidarietà. Sulla stessa linea gli economisti, in questi ultimi anni, hanno sostenuto l’uso di incentivi per promuovere i comportamenti auspicati. Un difetto dell’incentivazione consiste, però, nel fatto che non è solo un’alternativa alla costrizione, ma anche alla persuasione. Finisce che nessuno coltiva più l’abitudine a ragionare insieme su concezioni rivali di giustizia e bene comune. La polarizzazione spinta della politica che possiamo osservare nell’ambito delle nostre società non è dovuta tanto alla mancanza di accesso alle informazioni. C’è anche una questione epistemologica che ha a che fare con la validità dei metodi di acquisizione della conoscenza. Ma più che tutto si sottovaluta l’interazione esistente tra fatti e opinioni. La differenza di opinione spinge a percepire diversamente i problemi, a identificare e caratterizzare i fatti in modo diverso. Le nostre opinioni, il nostro sistema emozionale e valoriale dirigono le nostre percezioni. Le cornici interpretative di un problema finiscono per essere irrimediabilmente differenti. E non è una questione di livelli di istruzione. Ad esempio, i repubblicani sono più scettici dei democratici sugli impatti dei cambiamenti climatici, e si è dimostrato che il divario di parte aumenta col grado di istruzione. Il divario di parte non riguarda principalmente i fatti, ma la politica, per cui c’entra l’influenza dell’industria dei combustibili fossili, gli atteggiamenti più o meno consumistici, la fiducia nel governo e nella politica, il legame con altre generazioni e altri popoli. Affrontare i fallimenti della meritocrazia e della tecnocrazia è necessario per riuscire a immaginare una politica del bene comune. 


Cap 5 L’etica del successo 

Per riflettere sui criteri che rendono giusta una società dobbiamo chiederci quale tipo di società vorremmo scegliere nel caso in cui non sapessimo di nascere in una famiglia ricca o povera. In una situazione di questo tipo vorremmo che fossero attuate quelle politiche che consentono a ciascun bambino di raggiungere il proprio pieno potenziale, non tanto di diventare ricco. Non ci si deve preoccupare, infatti, solo dei soldi, ma anche del prestigio sociale e dell’autostima. Nelle società aristocratiche, basate sul valore dei natali, prestigio sociale e autostima erano meno legate alla posizione sociale perché questa poteva essere considerata del tutto arbitraria. Nelle società meritocratiche, invece, è più difficile separare la posizione sociale dal prestigio e dalla stima. Si tende a non riflettere sul fatto che talenti naturali e sforzo non rientrano tra i fattori su cui possiamo esercitare un controllo. Le società meritocratiche hanno dei difetti non solo perché non riescono a garantire un’equa eguaglianza delle opportunità. L’ascensore sociale è bloccato. E anche se funzionasse meglio non potrebbe mantenere le sue promesse di mettere tutti sulla stessa linea di partenza, a iniziare dal momento del concepimento. A parte questo, aiutare le persone ad avanzare sulla scala del successo in una meritocrazia competitiva è un progetto politico insignificante che riflette una concezione impoverita della cittadinanza e della libertà. Dà luogo a tracotanza e ansia, da una parte, e a umiliazione e risentimento, dall’altra. Ha quindi un effetto corrosivo sulla coesione e sul benessere sociale. Inoltre, l’ideale meritocratico riguarda la mobilità sociale, non l’uguaglianza. Non è un rimedio alla disuguaglianza, è, piuttosto, una sua giustificazione. Se l’ideale meritocratico è viziato perché trascura l’arbitrarietà morale del talento e sopravaluta il significato morale dell’impegno, quali concezioni alternative di giustizia sono disponibili? Esistono 2 teorie di etica pubblica prevalenti nel dibattito pubblico degli ultimi 50 anni: il liberalismo del libero mercato e l’egualitarismo liberale di J. Rawls o liberalismo del welfare. L’esponente di maggior spicco del primo fu Friedrich Von Hayek che sostenne (1960) che l’unica eguaglianza compatibile con la libertà sia l’uguaglianza puramente formale di tutti i cittadini di fronte alla legge. Egli si oppone alle varie modalità di redistribuzione del reddito. Secondo lui, i risultati del mercato non hanno nulla a che fare col merito. Riflettono, semplicemente, il valore che i consumatori attribuiscono ai beni e ai servizi che il venditore ha da offrire. Si tratta di un valore contingente, influenzato dalla legge della domanda e dell’offerta. Sul versante dell'egualitarismo liberale, J. Rawls è l’autore della Teoria della giustizia (1971). E’ fautore di un’equa uguaglianza delle opportunità. L’uguaglianza di risultato sarebbe troppo livellante e soffocherebbe la libera iniziativa. Le disuguaglianze sono, quindi, accettabili, ma solo se portano dei vantaggi alla parte meno fortunata della popolazione (principio di differenza). In questo modo le doti naturali diventano patrimonio comune. Il valore morale di una persona è sganciato dal suo reddito sia per Rawls che per Hayeck. Non è possibile confrontare tra loro le vite delle persone e misurare il loro valore perché la vita espone ciascuno di noi a sfide assolutamente diverse. Nelle nostre società pluraliste non è possibile concordare sulle virtù e qualità degne di essere celebrate. Qualsiasi tentativo di basare la giustizia distributiva sul merito morale anziché sul valore economico porterebbe alla coercizione e mortificherebbe la libertà (ndr ma il rischio è quello della polverizzazione della società, incapace di impegnarsi su finalità comuni). Per Hayeck la libertà viene concepita in termini di mercato. Per Rawls la libertà consiste nel perseguire la propria concezione di vita buona rispettando il diritto degli altri a tentare di realizzarla a loro volta. Egli ricorre alla metafora del velo d’ignoranza (secondo cui occorre chiedersi in quale società si preferirebbe vivere se si ignorasse di nascere da genitori ricchi o poveri) e al principio di differenza. Nonostante queste 2 teorie di etica pubblica -il liberalismo di mercato e l’egualitarismo liberale- non identifichino il merito col valore monetario, in una società di mercato dove i soldi sono la misura di quasi ogni cosa, la distinzione si fa più sottile. Anche perché non si trova un modo condiviso per attribuire valore al contributo delle persone per la costruzione della società al di fuori del loro valore di mercato. Ma soddisfare la domanda di mercato non è la stessa cosa di offrire un vero contributo di valore alla società. Il valore dei contributi non va misurato in termini monetari, ma dipende dall’importanza morale dei fini che servono.

 Dal momento che un sistema economico influenza la creazione dei desideri, la sua valutazione etica deve considerare il tipo di desideri che esso tende a generare o ad alimentare, non soltanto la sua efficienza nel soddisfare i desideri così come appaiono in un determinato momento. E’ importante che il sistema economico crei dei desideri appropriati. La soddisfazione della domanda dei consumatori non è carica di valore in sé: il suo valore dipende dallo status morale dei fini che serve. Ndr se nella società giusta di Rawls fare soldi significa anche recare appropriati vantaggi alla parte più sfortunata della società, la distinzione tra merito e valore monetario si fa più sottile. All’interno di una società giusta, in cui sia tale la cornice dei diritti e dei doveri che governa la società come un tutto, ciascuno può perseguire la propria concezione di vita buona, secondo Rawls. Sembra che oggi il welfare state non sia all’altezza dell’idea di società giusta che coltivava Rawls. Comunque, la questione dell’onore e del riconoscimento sociale non può essere distinta nettamente dalla questione della giustizia distributiva. La stima sociale, infatti, si riversa in modo quasi ineluttabile su coloro che godono di vantaggi economici e educativi. Aristotele riteneva che la giustizia avesse soprattutto a che fare col riconoscimento del merito, col premiare le virtù e distribuire, di conseguenza, cariche e onori, non con la distribuzione di reddito e ricchezza. Una deriva pericolosa nei liberalismi degli anni 80 e 90 è stata la distinzione tra poveri meritevoli e non meritevoli. Il nostro obbligo di aiutare i bisognosi non si basa sulla compassione e la solidarietà, ma sul modo in cui sono diventati bisognosi all’inizio. E quindi, chi fa richiesta di assistenza pubblica viene degradato al ruolo umiliante di vittima indifesa. Si offre un aiuto umiliante a chi è etichettato come inferiore all’origine, e non si offre alcun aiuto a chi è etichettato come irresponsabile. Ma la distinzione tra caso e scelta è difficile e gravida di errori. I due liberalismi convergono sull’enfasi della responsabilità personale. Il disaccordo può riguardare i casi in cui le scelte possono essere considerate davvero libere piuttosto che condizionate dal caso o dalla necessità.  


Cap 6 La macchina selezionatrice 

In una società meritocratica si approfondiscono le disuguaglianze. A questa critica si risponde che le disuguaglianze possono essere attenuate grazie all’ascensore sociale che viene messo in moto dall’accesso all’istruzione universitaria. Ma l’accesso all’istruzione universitaria è fortemente condizionato dal reddito dei genitori, per cui l’ascensore sociale si è bloccato. E anche nel caso si acceda la mobilità sociale è ridotta. Riguardo alla meritocrazia dobbiamo perciò chiederci se siamo responsabili o meno del nostro successo. Inoltre dobbiamo affrontare seriamente il problema delle disuguaglianze. La scuola dovrebbe insegnare, prima di tutto, a vivere. Oggi si è trasformata l’istruzione superiore in una gara di selezione iper-competitiva. Questo è malsano sia per la democrazia che per l’istruzione. Si genera, infatti, una classe di esclusi che si sente umiliata. Vengono erosi i legami della comunità. La curiosità viene, inoltre, travolta dalla preoccupazione per i voti. Per di più, la competizione meritocratica dà origine a una cultura della genitorialità invasiva, orientata al raggiungimento di risultati. Questo sta generando un’epidemia di disturbi mentali in giovani brillanti provenienti da famiglie benestanti (depressione, ansia, abuso di droghe, alcol..). Sono le conseguenze constatabili in un mondo in cui la performance, lo status e l’immagine definiscono l’utilità e il valore di una persona. La selezione all’istruzione universitaria potrebbe essere basata sulla sorte dopo avere, ad esempio, eliminato dalle domande le persone che, in base al curriculum, hanno poche probabilità di fiorire in università. Si dovrebbe anche investire di più sull’istruzione tecnica e professionale. L’istruzione superiore si propone non solo di preparare gli studenti al mondo del lavoro, ma anche a diventare riflessivi da un punto di vista morale e cittadini democratici attivi. Il più potente antidoto alla tracotanza del merito è pensare che il nostro destino fuoriesce dal nostro controllo e che siamo, perciò, in debito per il nostro successo. Si evita, così, che il merito diventi un tiranno sia a causa della mancanza di generosità verso i perdenti, sia a causa dell’apprensione e dell’ansia che genera nei vincitori. 


Cap 7 Dare riconoscimento al lavoro 

Negli ultimi decenni l’idea che i soldi posseduti riflettano il valore del nostro contributo sociale si è radicata nella nostra cultura. Questo ha comportato anche l’erosione della dignità del lavoro, apprezzato solo in relazione al denaro che procura. Il lavoro è uno strumento per guadagnarsi da vivere, ma anche una fonte di riconoscimento e stima sociale per il contributo che si offre al bene comune. La mancanza di riconoscimento e stima sociale ha caratterizzato le vite di chi è morto “per disperazione” provocando una diminuzione nell’attesa di vita degli Usa tra il 2014 e il 2017. Sono morti per suicidio, overdose e alcol, avvenute tra maschi e femmine bianchi di età compresa tra 45 e 54 anni. Sono morti avvenute in una società meritocratica incapace di premiare e onorare le credenziali di cui dispongono cittadini di quel tipo. Non è importante solo la giustizia distributiva, ma anche quella contributiva che ha a che fare con il riconoscimento dei contributi che si danno alla società e con la stima sociale. L’attenzione alla massimizzazione del Pil, anche se ha una sua logica, ci invita a pensare più come consumatori che produttori. Se ci pensiamo come produttori ci interessa più che tutto un lavoro soddisfacente e remunerativo. E riusciamo a capire il malessere che deriva dalle delocalizzazioni, dalla immigrazione sregolata e dalla finanziarizzazione dell’economia. Possono esserci 2 modi diversi di intendere il bene comune: 

  • Come somma delle preferenze e degli interessi di ciascuno. Questa concezione è in linea con la massimizzazione del Pil. Per di più ci esime da faticose negoziazioni su questioni morali controverse.
  • In alternativa, esiste una concezione civica del bene comune. Essa scaturisce dal confronto su come realizzare una società giusta e buona che coltivi la virtù civica e ci consenta di ragionare sugli obbiettivi e le priorità della nostra comunità politica. E’ importante riflettere sopra i fini delle istituzioni perché il valore del nostro contributo dipende dalla importanza morale e civica dei fini cui è teso il nostro impegno.

 Sempre a proposito di giustizia contributiva, il governo ha il dovere di promuovere le condizioni economico-sociali affinché le persone possano contribuire alla società in modi rispettosi della loro dignità e libertà. Il lavoro non va visto come un mezzo per accedere al consumo, ma un modo per onorare il nostro dovere di contribuire al bene comune. Un’economia politica incentrata solo sulla dimensione e distribuzione del Pil mina la dignità del lavoro e impoverisce la vita civile. Ma in questi ultimi 40 anni i progressisti sono stati abbagliati dalla retorica dell’ascesa e hanno accantonato il problema della disuguaglianza, la politica della comunità, la coltivazione dei valori civici, la dignità del lavoro. La finanziarizzazione dell’economia che Clinton ha avuto la responsabilità di promuovere ed esacerbare con le sue deregolamentazioni negli anni 90, offre l’esempio più evidente del divario tra ciò che premia il mercato e ciò che contribuisce realmente al bene comune. L’industria finanziaria ha investito sempre meno nell’economia reale e sempre più in una complessa ingegneria finanziaria del tipo dei derivati che procura grandi profitti solo a chi ne è coinvolto. Stiamo gettando sempre più risorse, comprese le menti di giovani brillanti, in attività di questo tipo che generano alte ricompense private, sproporzionate rispetto alla loro produttività sociale. Non è solo uno spreco, ma un insulto alla dignità di coloro che faticano a guadagnarsi da vivere nel campo dell’economia reale. Sarebbe serio spostare il carico fiscale dal lavoro alla speculazione finanziaria e al consumo, alla ricchezza, alle transazioni finanziarie. La tassazione non è solo uno strumento per finanziare la spesa pubblica, ma anche il modo per esprimere il giudizio di una società su ciò che conta come valido contributo al bene comune. Si consideri, ad esempio, la tassazione su alcol, tabacco, gioco d’azzardo, bibite zuccherate, emissioni di CO2. Non possiamo determinare ciò che conta senza ragionare sugli obbiettivi e sui fini della vita che condividiamo. Non possiamo farlo senza vederci come membri di una comunità cui dobbiamo la nostra gratitudine, senza riconoscere la comune interdipendenza e il contributo di tutti al benessere collettivo. Ma questi processi che sostanziano la democrazia sono stati oscurati dalla politica tecnocratica di questi ultimi decenni.


 Conclusioni 

La meritocrazia manifesta un  gran fascino. Rappresenta la rivendicazione del talento sul pregiudizio, sul razzismo, sulla disuguaglianza di opportunità. Tramite la libertà individuale diventiamo artefici del nostro destino. Sembrerebbe, quindi, che una società giusta sia una società meritocratica in cui tutti hanno la possibilità di salire fin dove talento e impegno li condurranno. Ma una società buona non può essere fondata sulla promessa di una via di scampo per chi è rimasto indietro. Bisogna trovare i modi per consentire a tutti quelli che non riescono ad emergere di fiorire lì dove si trovano e di considerarsi membri apprezzati di una società coesa. Si è portati a pensare che l’unica alternativa per rimediare ai difetti della uguaglianza di opportunità, gravata da profonde disuguaglianze, sia un’eguaglianza dei risultati, sterile e opprimente. Sarebbe un rimedio peggiore del male. L’alternativa vera è una diffusa uguaglianza di condizioni che permetta a chi non ottiene grandi ricchezze o posizioni di prestigio di vivere una vita ugualmente dignitosa. Il benessere sociale dipende dalla coesione e dalla solidarietà. Non implica solo l’opportunità dell’ascesa economico-sociale, ma un livello elevato di cultura generale e di interesse nei confronti del bene comune. Per arrivare al traguardo del benessere sociale, però, il bene comune non va inteso come la somma degli interessi dei consumatori che dobbiamo tendere a massimizzare, monitorandola attraverso la misura del Pil. Il bene comune può essere definito unicamente deliberando con i nostri concittadini sugli obbiettivi e i fini degni della nostra comunità politica. Non richiede un’eguaglianza perfetta. Richiede la consapevolezza della nostra interdipendenza e un vivo senso della contingenza della nostra sorte: un sentimento capace di generare una giusta dose di umiltà. Se ognuno dei più fortunati, infatti, non fosse stato graziato da Dio o baciato dal caso potrebbe trovarsi al posto del più disgraziato di tutti noi. E’ un sentimento ben diverso dalla tracotanza che divide, umilia e rende la solidarietà così difficile da ottenere.