Privatocrazia

Introduzione 

Dagli anni 80 del 900 si è assistito a una progressiva privatizzazione di funzioni pubbliche. Sarebbe legittimo se queste funzioni delegate ai privati fossero di carattere ausiliario. Invece, i processi di esternalizzazione hanno riguardato funzioni essenziali come la sanità, l’istruzione, i servizi sociali, le attività militari e il sistema carcerario. La privatizzazione è diventata un fenomeno globale. Consiste nel fatto che il privato amministra anche se è lo Stato che, almeno nominalmente, dirige. Governare, ora, spesso significa incentivare e coordinare un insieme di attori privati. In questo modo il privato diventa co-responsabile e co-amministratore della cosa pubblica. Perché è successo tutto questo? E’ iniziato a causa di una crisi di legittimità subita da molti Stati moderni in seguito a una proliferazione tumultuosa del loro apparato burocratico-amministrativo nel secondo dopo-guerra. La risposta è consistita nella progressiva introduzione di strategie di mercato nella gestione degli affari pubblici. Ma questi sviluppi non sarebbero stati possibili senza il supporto dell’ideologia neo-liberistica, diventata egemone a partire dagli anni 80. Si era convinti che, grazie alla competizione di mercato, i privati potessero far meglio e con meno risorse. Ma la crisi finanziaria del 2008 e la pandemia hanno messo in discussione la supremazia del privato sul pubblico e riaffermato il ruolo dello Stato in ambito politico, economico e sociale.  E ci si è chiesto se un sistema privatocratico possa governare in modo legittimo. E’ una domanda cruciale, tuttavia assente nel dibattito pubblico. La privatizzazione, infatti, viene concepita come fenomeno puramente economico e di esclusiva competenza tecnica-scientifica. Si dovrebbe ragionare, invece, da un punto di vista di etica pubblica. Si scoprirebbe che la scelta di amministrare il pubblico tramite il privato compromette le ragioni stesse per cui uno Stato democratico è chiamato a esistere. La morale pubblica ci impone di fissare dei limiti costituzionali alla privatizzazione di funzioni essenziali anche quando ciò comporti guadagni in termini di efficienza. Gli Stati, infatti, reclamano la legittima autorità di stabilire quali siano i diritti e i doveri dei cittadini e di esercitare potere coercitivo su di essi. Solo all’interno di uno Stato i nostri diritti e doveri possono essere definiti e resi effettivi in assenza di dominio, ossia senza che nessuno debba dipendere dalla volontà privata e arbitraria di un altro. Questa è forse la lezione centrale del pensiero politico di Kant secondo cui senza lo Stato non può esserci giustizia. Le procedure democratiche, dividendo l’autorità e il potere ugualmente tra tutti i cittadini, sono le uniche che assicurano l’indipendenza reciproca e la rappresentanza democratica. La privatizzazione trasferisce invece poteri, responsabilità e discrezionalità significative ai privati compromettendo l’autogoverno democratico. Una ragione fondamentale che giustifica l’esistenza di uno Stato democratico è superare il problema del dominio. Non dobbiamo, tuttavia, trascurare il fatto che spesso la privatizzazione emerge come risposta a un problema concreto e reale dello Stato amministrativo moderno: il carattere elefantiaco e spesso abusivo della burocrazia. Si pone, quindi, il problema di come riformare la pubblica amministrazione. Per uscire dalle privatizzazioni non basta limitare il potere dei privati. Bisogna anche democratizzare quello dei burocrati che devono essere dotati di competenze specifiche e aperti alla partecipazione dei cittadini per ridurre gli aspetti più impersonali e alienanti del sistema burocratico. 


Il caso della sanità

Il caso della sanità è emblematico di come la privatizzazione minacci la democrazia. Abbiamo un esempio eclatante in Regione Lombardia. La sua inadeguatezza si è manifestata anche in occasione della pandemia da Covid-19. Tutto ha avuto inizio con la riforma voluta da Formigoni nel 1997, fondata sul principio della “sussidiarietà solidale” che permetteva ai privati di cooperare alla pari coi servizi pubblici all’interno del Servizio Sanitario Regionale. Oggi quasi il 50% della sanità regionale è gestito da privati, per la maggior parte a scopo di lucro. La competizione di mercato si è rivelata un incentivo a non fornire servizi essenziali in quanto meno redditizi rispetto a servizi non essenziali. Ospedali e Istituti privati vengono trionfalisticamente chiamati luoghi di “eccellenza”, ma l’eccellenza si è concentrata su interventi chirurgici di alta specializzazione, sofisticate ricerche sul genoma e una medicina personalizzata di qualità. Hanno sofferto i servizi di prevenzione, l’assistenza sanitaria primaria, i servizi di salute mentale e quello di pronto soccorso. Questi squilibri hanno massimizzato il profitto dei privati, ma a scapito della salute pubblica. Non è solo una questione di efficacia, ma di giustizia. La privatizzazione compromette, infatti, la possibilità dell’autogoverno democratico. Ne va, dunque, della legittimità stessa delle istituzioni democratiche. Per quali motivi le compromette e quali sono le condizioni minime per cui un popolo diventi capace di autogoverno? 

  • è richiesta prima di tutto una capacità di controllo direttivo, ossia di dirige le proprie azioni in base alla volontà della maggioranza.
  • Occorre una capacità di vigilanza. Questa è una disposizione in parte cognitiva perché richiede di vigilare su eventuali di abusi. E in parte richiede un atteggiamento affettivo fatto di interesse e di cura per ciò che ci circonda.
  • La terza condizione necessaria consiste nell’uguaglianza di opportunità di influenzare il processo politico.

 La democrazia, inoltre non ha solo un valore strumentale perché ci aiuta a adottare decisioni migliori o promuovere la stabilità sociale, ma ha un valore intrinseco perché ci consente di non essere subordinati alla volontà privata e arbitraria di altri, ma solo alla volontà della maggioranza del popolo di cui siamo parte, comunque entro i limiti previsti dalla Costituzione. La privatizzazione minaccia ognuno di questi pre-requisiti. 

  • Minaccia la capacità di controllo direttivo perché più si esternalizza meno si ha la capacità di raccogliere informazioni adeguate sulle prestazioni dei propri agenti privati e sul rispetto dei termini contrattuali. Si cade in un circolo vizioso perché si perde il controllo sia in ambito pratico che metodologico.
  • Minaccia la capacità di vigilanza perché compromette la visibilità necessaria su frodi e abusi in quanto le aziende private controllano le informazioni su costi, prestazioni, circostanze … La privatizzazione contribuisce al disimpegno civico.
  • Contrasta con l’eguaglianza di opportunità di influenzare i processi politici. Questa capacità non si esprime solo col voto, ma anche con la partecipazione alla formazione e elaborazione dell’opinione pubblica.

 La progressiva dipendenza dei governi dagli attori privati indebolisce la capacità dei governi di resistere alle loro richieste. Ciò genera corruzione e clientelismo. La privatizzazione non è solo nociva, è illegittima. Ogni Costituzione dovrebbe imporre limiti espliciti alla privatizzazione di funzioni pubbliche. Bisogna, però, distinguere tra funziono ausiliarie e essenziali, come servizi sanitari, sociali ed educativi. Non bisogna solo limitare il tipo di funzioni soggette a privatizzazioni, ma anche la quantità di esternalizzazioni perché il rischio di manipolazione del pubblico da parte del privato dipende anche dal numero totale di privatizzazioni. 


Il nuovo welfare state

 A partire dagli anni 70 il welfare state ha cambiato volto negli Stati occidentali. Si è avviata una rivalutazione del ruolo delle organizzazioni no-profit nella gestione dei servizi sanitari e sociali. E’ avvenuto sulla base di valori quali lo spirito comunitario, la solidarietà e il pluralismo civico. Il ruolo dello Stato nell’erogazione di servizi pubblici costituiva una conquista relativamente recente. Nella seconda metà dell’800 prevalevano servizi forniti da associazioni di mutuo soccorso o enti di assistenza e beneficienza. Solo nel 900 e, in particolare, dopo la 2’ guerra mondiale, i sistemi di welfare state socialdemocratici si consolidano. La garanzia di alcuni servizi essenziali non rappresentava più una forma di beneficienza, ma un diritto da tutelare per una questione di giustizia sociale. Poi, con l’avvento del neoliberismo alla fine degli anni 70, le cose cambiarono gradualmente in tutta Europa. Iniziarono le esternalizzazioni, le aziendalizzazioni e si introdussero meccanismi di quasi mercato, in cui fornitori pubblici e privati competono nell’acquisizione dei clienti. La crisi finanziaria del 2008 e la pandemia hanno scosso alcune certezze sulla supremazia del privato nei confronti del pubblico. Ma non si è generato un rifiuto della privatizzazione. Si è, invece, puntato su una forma alternativa di privatizzazione, centrata sul terzo settore, la versione contemporanea delle società benefiche. E’ in questo contesto che si attua, in Italia, la riforma del terzo settore (2016). C’è da chiedersi se questa evoluzione rappresenti un rifiuto del neoliberismo o, piuttosto, una sua nuova espressione. Beni pubblici essenziali come la salute, l’istruzione o l’assistenza ai bambini e agli anziani non si limitano ad essere classificati come bisogni, ma rappresentano diritti per i quali il privato non è titolato a decidere quali trattamenti fornire, come bilanciare le richiesta degli assistiti, quale priorità soddisfare. Non tutto può, infatti, essere previsto e definito a priori in contratti e regolamenti. La flessibilità è necessaria. Il potere di decidere deve essere esercitato in nome di tutti i cittadini. I privati hanno una difficoltà costitutiva ad agire in nome del pubblico anche se dotati di buone intenzioni perché hanno finalità di natura non pubblica, interpretate dalle associazioni alla luce di ideologie e concezioni del bene non universalmente condivisibili in quanto non fondate su valori comuni. Molte remore potrebbero essere superate se il privato si limitasse a una funzione sociale supplementare lasciando al pubblico il dovere di rispondere ai bisogni essenziali. A questo fine lo Stato dovrebbe assicurare fondi sufficienti per il finanziamento di servizi pubblici essenziali che ha la responsabilità esclusiva di fornire. La società civile dovrebbe preoccuparsi di rendere la società sia vigile che buona provvedendo all’erogazione di beni di tipo discrezionale come l’arte, la ricreazione e servizi sociali non essenziali che riflettano l’ampio pluralismo di valori e concezioni del bene dei cittadini. Ma si deve evitare un ritorno a un apparato amministrativo-burocratico elefantiaco e alienante che ha motivato, più di tutto, la spinta alle privatizzazioni. 


Filantropia e potere

 Il neoliberismo ha comportato politiche di alleggerimento fiscale e di tagli alla spesa pubblica. Si è accompagnato anche a una crescita della filantropia privata, tanto che, incentivata da politiche pubbliche, è diventata un mezzo alternativo per soddisfare bisogni sociali essenziali, non solo discrezionali. Ma quali sono i rischi di un sistema che concepisce la filantropia come strumento sostitutivo della spesa pubblica? Prima di tutto, spesso, grazie alla legislazione vigente, la filantropia non comporta atti di puro altruismo, ma transazioni parzialmente sussidiate dallo Stato che offre alla scopo generosi incentivi fiscali. C’è poi da chiedersi quanto sia giusto un sistema economico che consente a pochi filantropi di accumulare ricchezze di centinaia di miliardi di dollari e lascia quasi un miliardo di persone a lottare quotidianamente contro la fame. Per di più, i filantropi non tendono a promuovere una più equa redistribuzione della ricchezza, ma possono trascurare le priorità, i bisogni più urgenti e le comunità più emarginate. E non sappiamo quanto lo Stato potrebbe ottenere se aggiungesse alla spesa pubblica ciò che indirettamente spende per sovvenzionare donazioni private. C’è il dubbio che la filantropia sia usata tatticamente dai super-ricchi per legittimare e riprodurre un sistema sociale ad essi favorevole. Anche perché la concentrazione del potere economico comporta pure enormi possibilità di influenzare il potere politico. La filantropia è inseparabile da una condizione di ampie disuguaglianze economiche (pag 69). E questa disuguaglianza è iniqua non solo perché contrasta col principio per cui tutti gli uomini nascono liberi e uguali in dignità e diritti, ma anche perché: - l’accumulo di ricchezza nella parte più povera del mondo deriva da processi di colonizzazione, espropriazione e estrazione di risorse da parte delle nazioni più ricche; - l’uno percento della popolazione mondiale non potrebbe essere diventato così ricco senza la fatica e la cooperazione dell’altro 99%. La distribuzione della ricchezza non è un fatto naturale, ma il risultato di un fallimento politico a redistribuire i frutti della cooperazione sociale in modo equo per via dell’inadeguatezza del sistema fiscale, delle retribuzioni e l’esistenza di paradisi fiscali. Le regole del gioco sono state spesso truccate. La filantropia, anche qualora fosse depurata dalle sue origini inique e dalla sue caratteristiche più disdicevoli (l’influenza spropositata sul potere politico), non dovrebbe giocare un ruolo essenziale nell’assicurare condizioni materiali di giustizia, ma solo complementare. Bisognerebbe, inoltre, democratizzare la filantropia per temperare la discrezionalità del filantropo e la relazione di dipendenza tra benefattore e beneficiario. 


Privatizzare l’istruzione 

L’istruzione, insieme con la sanità, è uno dei beni più soggetti alla spinta globale di privatizzazioni. Esistono, però, dei problemi di disuguaglianza sociale che nascono quando la scuola privata offre un’istruzione qualitativamente superiore rispetto a quella pubblica senza essere universalmente accessibile. E’ un’evenienza che si presenta soprattutto se il privato è diffuso perché i migliori insegnanti possono essere drenati dal pubblico al privato sfruttando meccanismi di selezione e incentivazione più flessibili. Si creano, così, disuguaglianze educative e lavorative, influenzate dalla classe sociale dei genitori. E si creano, anche, disuguaglianze relazionali perché l’accesso è difficoltoso per chi non ha i mezzi per pagare le rette scolastiche. Alcune classi sociali risultano escluse. Queste conseguenze negative contrastano con l’affermazione del principio della libera scelta della scuola sostenuto, soprattutto, da parte delle famiglie appartenenti alle élite. Per di più l’istruzione pubblica assolve anche a una funzione comunicativa in quanto afferma quali sono le norme sociali, i diritti e i doveri e le aspettative che vanno rispettati e quali sono i comportamenti appropriati e quelli inappropriati. L’interesse legittimo dei genitori non ha nulla a che fare con l’inculcare nei figli i propri valori attraverso la scelta di una specifica scuola. L’interesse legittimo deve limitarsi ad assicurare le condizioni necessarie alla formazione di persone capaci di pensare criticamente e di compiere scelte autonome. Il compito dell’istruzione consiste, infatti, nel fornire elementi di tipo conoscitivo e comportamentale necessari al raggiungimento dell’autonomia personale economica e della capacità di partecipazione sociale. E ancor prima, la scuola dovrebbe veicolare il messaggio che la società tiene al sano sviluppo dei suoi figli e al loro benessere. Non va comunque dimenticato il ruolo che le scuole private e, in particolare, quelle cattoliche hanno storicamente svolto all’interno del sistema educativo italiano. Tuttavia, l’insegnamento della religione cattolica dovrebbe essere sostituito dall’insegnamento della storia delle religioni. E i simboli di una particolare religione dovrebbero essere eliminati poiché nessuna religione dovrebbe assurgere a religione di Stato. 


Reimmaginare il pubblico 

L’intreccio sempre più sviluppato tra pubblico e privato ha dato vita a un sistema in cui l’esercizio del potere politico è sempre più orientato a finalità di interesse privato. Aumenta, così, il rischio per cui alcuni si trovano a dipendere dalla volontà privata di altri per la soddisfazione dei propri diritti Bisognerebbe, perciò, imporre dei limiti costituzionali alla privatizzazione (art 43 della costituzione). Nello stesso tempo, però, occorre immaginare un modello amministrativo della cosa pubblica diverso, tale da poter godere di una maggiore legittimità democratica. Non doibiamo, infatti, dimenticare come la privatizzazione sia stata a volte favorita e addirittura invocata a causa della natura alienante del sistema burocratico e delle sue carenze e inefficienze. Abbiamo bisogno di una burocrazia competente e indipendente (si potrebbe imitare la Francia con la sua scuola nazionale di amministrazione ENA). E occorre anche che la burocrazia sia aperta alla partecipazione attiva dei cittadini. E’ richiesto ai funzionari pubblici di essere ispirati dai principi etici che stanno alla base del servizio pubblico. L’elargizione di incentivi economici, soprattutto se sono di entità consistente, può, addirittura, compromettere la spinta morale al servizio. E’, infatti, il sistema amministrativo stesso a dover offrire incentivi morali e culturali per generare un senso di orgoglio e consapevolezza della delicatezza del ruolo svolto. Va definito e interiorizzato un ethos del servizio pubblico. Una burocrazia più competente e motivata moralmente può contribuire a rigenerare fiducia nel pubblico. Non basta pensare di limitare costituzionalmente la privatizzazione di funzioni pubbliche. Bisogna anche riformare la pubblica amministrazione. E occorre attribuire ai cittadini un ruolo diretto nella gestione degli affari pubblici. Si potrebbe pensare a un sistema di codeterminazione del tipo di quello in vigore in Germania (pag. 117). La presunta superiore efficienza del privato è contraddetta da molteplici casi in cui i costi di monitoraggio e amministrazione dei contratti lo rendono meno conveniente rispetto al pubblico.