Da tempo sappiamo che la maggior parte dei malati cronici, quando sente svanire le forze, desidera essere assistita a casa e, se la situazione precipita, morire tra le mura domestiche (1). Tuttavia, questo desiderio così diffuso e profondamente umano non riesce ad essere sempre esaudito. Ad esempio, in Italia, circa la metà dei malati cronici muore in ospedale. Anche a Bergamo succede così nel 46% dei casi complessivi (2). Se poi distinguiamo, tra i malati cronici, alcune particolari tipologie assistenziali, la situazione appare più diversificata a seconda dei gruppi di appartenenza (si veda la figura 1). All'estero la situazione non migliora: ad esempio, in Inghilterra, addirittura il 58% delle morti si verifica in ospedale, solo il 18% in casa propria (3). Di fronte a questi dati c'è da chiedersi perché abbiamo perso il controllo su decisioni cruciali relative alla nostra vita e non siamo in grado di soddisfare le nostre preferenze su una questione così radicale che riguarda gli ultimi momenti dell'esistenza, il passaggio più ricco di valore simbolico di tutta l'avventura umana. Pensiamo che se ne debba parlare. Anche perché l'ospedale non ha molto da offrire al malato cronico che si avvicina alla fine dei suoi giorni. Per sua natura non è adatto a gestire la complessità dei problemi tipici delle fasi terminali della vita benché si possa fare ancora molto per renderlo più ospitale anche in queste circostanze (4). Lo sradicamento del malato dai propri contesti sociali e familiari comporta numerosi effetti negativi. La stessa voglia di vivere tende a svanire quando ci si allontani dalla sicurezza di un contesto familiare amico, dalle proprie abitudini e dai propri ritmi. La riflessione che segue vorrebbe migliorare la consapevolezza su quanto accade nella interazione coi servizi sanitari in prossimità della morte, per chiarire i fattori che possono aiutarci a cambiare.
Le tendenze attuali
Fino ai primi decenni del 900 la maggior parte delle persone moriva a casa ancora in giovane età, soprattutto in seguito a malattie infettive. Oggi, per fortuna, è molto cambiato. Dobbiamo però fare i conti con alcune tendenze per non lasciarcene travolgere. 1) Prima di tutto, da diversi anni assistiamo a una progressiva riduzione della durata della degenza e del numero di letti ospedalieri . Ne ha molto guadagnato l'efficienza dell'ospedale. Hanno perso qualcosa, però, i malati che vengono dimessi più precocemente e in condizioni di maggior precarietà (5) . Di conseguenza è aumentato l'onere di cure mediche e infermieristiche a domicilio: un sovraccarico di cui bisognerebbe tener conto nella ripartizione dei finanziamenti per la sanità e i servizi sociali. 2) Un'altra tendenza ha a che fare con la medicina che diventa sempre più specializzata, tecnologica e complessa, ritagliata sulle caratteristiche dell'ospedale, da cui viene concepita e standardizzata nelle linee guida diagnostico-terapeutiche. Invece, proprio in relazione con la politica di contenimento dei posti letto ospedalieri, si dovrebbe investire maggiormente sull'assistenza sanitaria territoriale e qui promuovere una medicina meno invasiva e disfunzionale per i malati e le loro famiglie (6). In contrasto con la progressiva intensificazione dei processi terapeutici, occorrerebbe armonizzare le cure con la quotidianità della vita reale nei contesti familiari, così come ci invita a fare la cosiddetta medicina integrativa (7). Potrebbero emergere delle sinergie feconde con la cultura delle cure palliative che va diffondendosi anche fuori dagli hospice, particolarmente versata nel controllo dei sintomi e della qualità della vita, a salvaguardia della dignità della persona umana e della sua soggettività. 3) Le nostre famiglie, tendenzialmente più piccole e sole, si sentono sempre più inadeguate ad assistere i propri cari tra le mura domestiche. Nelle nostre città, ad esempio, circa il 40% dei nuclei familiari è costituito da un unico membro. Al di là delle reti di relazioni che possono costruire, le famiglie non avvertono solo una sensazione di incompetenza dovuta alla specializzazione dei saperi, ma anche una progressiva estraneità alle problematiche connesse con la malattia, la sofferenza e la morte che sono state ormai delegate alle istituzioni sanitarie e ai loro professionisti. Quasi senza rendercene conto abbiamo subito un esproprio progressivo di queste esperienze che un tempo erano appannaggio di tutti. Ci confrontiamo sempre meno con la fragilità della vita: forse anche per questo stentiamo a riconoscerne la preziosità. Sono però intervenute a favore delle nostre famiglie 2 condizioni relativamente nuove. a) La prima è in relazione con le ondate migratorie di questi anni per cui è aumentato il fenomeno delle "badanti". Per avere un'idea della sua dimensione quantitativa, si stima che il fenomeno interessi circa 15.000 famiglie nella nostra provincia. Questo ha concesso a molti di noi di assistere a casa i nostri cari allentando la pressione esercitata su case di riposo e ospedali, alla ricerca di un ricovero. b) L'altra novità è intervenuta sul fronte dei servizi sanitari. Da più di 15 anni a questa parte sono comparsi nel nostro sistema i servizi di assistenza domiciliare integrata (Adi) che vogliono garantire un supporto sanitario e sociale a favore dei malati curati a casa. Si tratta di servizi ancora giovani, introdotti con molta timidezza, poco conosciuti e distribuiti in modo disomogeneo nel nostro Paese. Impegnano una parte davvero esigua dei fondi destinati alla sanità: ad esempio, nella nostra provincia, si riducono a circa l'8 per mille dei finanziamenti destinati alla rete ospedaliera. Nello scenario attuale, quindi, tenendo conto delle diverse tendenze descritte che interagiscono tra loro, sembrano opporsi 2 forze contrarie. Da una parte c'è l'ospedale che dimette più precocemente i malati. Dall'altra ci sono le famiglie che, per via di cambiamenti strutturali e culturali, ricorrono all'ospedale anche più del dovuto, quando esso ha ben poco da offrire. E in questo ricorso non sono così contrastate. Infatti, mentre le dimissioni sono più precoci, i ricoveri, generalmente, non sono diventati più difficili (8). Aumenta, per così dire, il movimento di va-e-vieni dall'ospedale. Questa seconda spinta verso l'ospedale, però, è stata in parte attenuata sia dall'aiuto domestico delle badanti sia anche dalla comparsa dei servizi di assistenza domiciliare che hanno migliorato la qualità delle cure ed esteso la capacità di accoglienza delle famiglie rispetto ai propri cari non più autosufficienti. Nonostante ciò, per i malati cronici nel corso dall’ultimo anno di vita, l’ospedale resta un luogo d’approdo frequente e con una progressiva accelerazione in rapporto con le traiettorie e i momenti di aggravamento tipici delle diverse patologie (9). Abbiamo potuto formulare empiricamente la regola secondo cui il 50% dei ricoveri si verifica nell’ultimo trimestre; di questi il 50% avviene nell’ultimo mese; di questi il 50% negli ultimi 10 giorni (2).
Cosa è possibile fare?
Il desiderio di essere curati nella propria casa non appartiene alla gamma delle scelte categoriche stabilite una volta per tutte. Si tratta, per lo più, di un'inclinazione che può variare all'avvicinarsi della morte. Man mano diventa più vulnerabile, il paziente capisce che la realtà è incompatibile con le sue preferenze. Si preoccupa per l'angoscia dei familiari e i limiti più o meno evidenti dei servizi che lo assistono. Non vuole diventare un peso eccessivo e si adatta a lasciare la sua casa (10). Quando, viceversa, siano disponibili delle reti di sostegno e dei servizi adeguati, diventa più difficile per il malato convincersi di essere diventato un peso troppo grave per i suoi cari. Anche nelle fasi più avanzate della malattia può confidare di venire curato a casa propria. Nella figura 2, a conferma di questo, viene messa in evidenza la accelerazione molto più tenue dei ricoveri ospedalieri all’approssimarsi della morte nel gruppo dei pazienti seguiti in Adi rispetto al gruppo dei pazienti che non ha fruito di questa assistenza. La pendenza della curva non è molto diversa da quella di malati assistiti in Rsa (residenze sanitarie assistenziali), dove la medicalizzazione si è progressivamente intensificata in questi ultimi anni. La notevole accelerazione, evidente in figura per chi non è stato seguito in Adi, motiva la necessità di riflettere sull’appropriatezza dei ricoveri di una quota importante di malati cronici nella prossimità del loro decesso. E’ vero che la vicinanza al momento del decesso può essere definita solo retrospettivamente e che le questioni relative alla prognosi sono sempre gravate da una consistente mole di incertezza (11), tuttavia riteniamo che qualcosa possa essere fatto per ridurre anche solo in parte il numero di 1264 ricoveri, per una spesa di 3.234.000 euro, che si è verificata negli ultimi 7 giorni di vita a carico di una porzione non trascurabile dei 4420 malati seguiti, attraverso il nostro studio, nei loro percorsi assistenziali. Vale la pena sottolineare che la spesa affrontata per questi ricoveri, ad elevato rischio di inappropriatezza, supera da sola la metà del finanziamento complessivo annuale impegnato per l’assistenza domiciliare integrata della provincia di Bergamo che segue ogni anno circa 5.000 persone. Sempre a proposito di ricoveri, abbiamo analizzato la frequenza con cui i malati cronici studiati sono stati esposti a ricoveri ripetuti per diverse volte. Mentre l’84% delle persone ospedalizzate ha subito da 1 a 4 ricoveri e un ulteriore 14% da 5 a 9 ricoveri, la coda estrema del 2% è stata ricoverata in ospedale addirittura da 10 a 33 volte negli ultimi 12 mesi di vita. Inoltre, tra i 9054 ricoveri ordinari effettuati nella popolazione studiata nel corso dell’ultimo anno di vita, ben il 36% è stato ripetuto a un intervallo di tempo inferiore a 60 giorni. Per questa quota di ricoveri ripetuti si è affrontata una spesa complessiva di 13.340.876 euro. Tutte queste considerazioni ci inducono a ragionare sulla necessità di trovare delle modalità adatte per programmare i ricoveri di pazienti particolarmente critici, ad esempio nelle fase avanzate di malattie tumorali o di scompenso d’organo. A titolo di esempio, le stesse èquipe che oggi operano nella nostra provincia per le cure palliative domiciliari potrebbero essere coinvolte in queste valutazioni. Tale possibilità potrebbe aggiungersi a quella vigente sulle dimissioni programmate e aiutarci a far sì che i ricoveri siano meglio meditati, non avvengano in emergenza e siano sempre legati al raggiungimento di obbiettivi ben definiti a vantaggio dei malati. Per le stesse ragioni bisognerebbe anche impegnarsi per uno sviluppo progressivo dei servizi di assistenza domiciliare, tenendo anche conto dei loro necessari legami con il medico di famiglia, il supporto sociale e l'aiuto domestico. Anche perché il fenomeno delle badanti, di cui ci siamo finora giovati, non è destinato a durare per sempre e appare già affievolirsi in seguito all’emanazione delle norme sulle "regolarizzazioni". Affinché si realizzi tutto questo, è necessaria, però, una diversa ripartizione dei finanziamenti destinati ai vari servizi. Il potenziamento dell’Adi e delle cure palliative domiciliari potrebbe essere finanziato anche solo prevenendo una piccola parte dei ricoveri ad alta probabilità di inappropriatezza avvenuti nell’ultima settimana di vita o ripetuti a intervalli di tempo inferiori a 60 giorni. Questo faciliterebbe la permanenza a casa dei malati cronici. Già oggi, infatti, nonostante l'esiguità delle risorse impegnate, sappiamo che i malati seguiti dall'Adi muoiono in ospedale solo nel 27% dei casi rispetto al 56% di chi non è stato seguito. L'assistenza domiciliare funziona, infatti, come un ammortizzatore. Riesce ad attutire l'urto di reazioni d'ansia tese a trovare maggiore sicurezza in un ricovero ospedaliero, nel caso di aggravamento delle condizioni del malato.
Conclusioni
Resta un'obiezione importante. Non è così scontato attribuire proprio all'Adi il risultato di morire più frequentemente in casa propria. Certo è plausibile che l'Adi funzioni come un ammortizzatore nei confronti di reazioni d'ansia volte a procurarsi un ricovero sicuro di fronte alla malattia che si aggrava. Ma è anche vero che l'Adi, a parte il fenomeno dell'accelerazione più tenue dei ricoveri nelle ultime settimane, non procura, nel corso dell'intero ultimo anno di vita, una minore frequenza di ricoveri. Anzi, succede il contrario, verisimilmente per il fatto che i malati così seguiti tendono ad essere più gravi rispetto agli altri. La funzione di ammortizzatore, quindi, si manifesta solo, e con la massima evidenza, nelle ultime settimane di vita. Come al solito, di fronte a studi osservazionali, dobbiamo considerare attentamente il cosiddetto bias di selezione. Ossia, le persone che ricorrono all'Adi non sono diverse da quelle che non vi ricorrono solamente per via dell'assistenza di cui si sono o non si sono dotate. Ricordavamo prima, ad esempio, che almeno ipoteticamente, dovrebbero trovarsi in condizioni di superiore gravità. Inoltre, decidere o meno di ricorrere all'Adi ha diverse implicazioni. Comporta, prima di tutto, che un malato non autosufficiente non sia solo e possa avvalersi già di qualche aiuto nella propria casa. Ma, soprattutto, accedere o non accedere all’Adi è condizionato da culture diverse: non soltanto per la conoscenza di un servizio relativamente nuovo, ma per la credibilità riservata alle istituzioni, la disponibilità ad aprire l'uscio della propria casa a persone "estranee" e dar loro fiducia, la volontà di condividere con altri le proprie fatiche e preoccupazioni. Sarebbe quindi molto interessante approfondire le differenze tra chi ricorre e non ricorre all'Adi per cercare, nei limiti del possibile, di isolare l’effetto di questa assistenza da quello di altre condizioni concomitanti e promuoverne l’accesso favorendo una cultura più consona oltre che la riprogettazione delle reti sociali. A parte queste considerazioni che aprono la strada ad ulteriori ricerche, pare plausibile che l’Adi supporti e favorisca la solidarietà all’interno delle famiglie. Il suo interesse risiede anche nelle relazioni di amicizia e di amore di cui sono fecondi i nostri nuclei familiari e nel valore simbolico della casa. Per ognuno di noi, infatti, la casa si trova al centro della propria storia. Oltre ad essere un luogo privilegiato della memoria, rappresenta un ponte capace di proiettarci nel futuro, tutte le volte che pensiamo ai nostri cari che la abiteranno dopo di noi e ci ricorderanno. Nonostante il valore attribuito alla famiglia e alla casa, non dipenderà tanto dalle volontà individuali l’esito di morire nel proprio letto piuttosto che in un reparto ospedaliero. Dipenderà in parte dagli aiuti di cui riusciremo a disporre e in parte dai cambiamenti culturali che interverranno. Se disporremo degli aiuti adatti riusciremo a resistere meglio alla cultura dominante che ci spinge a non rassegnarci, suggestionandoci con le immagini televisive di improbabili salvataggi e di storie a lieto fine nel pronto soccorso ospedaliero. In queste immagini la morte non viene più rappresentata come la fine naturale della vita, ma come l'onta della resa e della sconfitta. E’ difficile modificare queste rappresentazioni che ci siamo costruiti a poco a poco negli anni. Dovremmo, quindi, riuscire a promuovere una nuova cultura, cambiando, prima di tutto, l'idea di medicina scientifica, legata a un'immagine salvifica, tutta protesa verso la guarigione e la sopravvivenza. Ma una nuova concezione di medicina non può che essere il riflesso di una diversa concezione della vita, capace di accettare la fragilità e la morte. Solo a queste condizioni la sanità saprà assicurare un'assistenza decente a chi, pur non potendo guarire, detiene il sacrosanto diritto di essere curato umanamente fino all'esalazione dell'ultimo respiro. Non si tratta di una questione marginale, ma dell’impegno principale che la sanità di questo secolo deve affrontare per restare all’altezza dei problemi che la investono.
Bibliografia 1) Higginson IJ, Sen-Gupta GJ. Place of care in advanced cancer: a qualitative systematic literature review of patient preferences. J Palliat Med. 2000 Fall;3(3):287-300. 2) Alfieri R., Brembilla G., Imbalzano G., Moretti R.. Percorsi di cura nell'ultimo anno di vita. Prospettive sociali e sanitarie, n.11, 15 giugno 2009. 3) Department of health. End of life care strategy. Executive summary, July 2008. 4) Editorials. End of life care in the acute hospital setting. BMJ, 339, 1 December2009. 5) Farrar S. et al. Has payment by results affected the way that English hospitals provide care? Difference-in-differences analysis. BMJ, 339, 27 august 2009. 6) May C. et al. We need minimally disruptive medicine. BMJ, 339, 11 August 2009. 7) Editorials. Closing the evidence gap in integrative medicine. BMJ, 339, 3 October 2009. 8) S.F. Jencks et al. Rehospitalizations among Patients in the Medicare Fee-for-Service Program. NEJM, Vol 360:1418-1428, n 14, 2 April 2009. 9) Murray S., Sheikh A.. Making a difference: palliative care beyond cancer. Care for all at the end of life. BMJ, 336:958-959, 8 Aprili 2008. 10) Munday D. et al. Exploring preferences for place of death with terminally ill patients: qualitative study of experiences of general practitioners and community nurses in England. BMJ, 339, 15 July 2009. 11) 1) T. E. Finucane. How Gravely Ill Becomes Dying. A Key to End-of-Life Care. JAMA vol 282 n.17, 3-11-1999.